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L'Aldilà per Hitler, Stalin o Simili
Te lo sei mai chiesto? Cosa succede dopo la morte a chi ha fatto tanto male nella vita? Figure come Hitler o Stalin: sono condannate per l’eternità?
Ma poi, l’inferno esiste davvero? È un posto? Una punizione? O forse è qualcosa di molto più vicino a noi, qualcosa che possiamo persino sperimentare in vita?
Se ti fermi a pensare, forse hai già vissuto un tuo personale inferno. E se fosse proprio questo il punto? Che inferno e paradiso non sono luoghi, ma stati mentali?
Vediamo insieme come stanno davvero le cose, al di là delle credenze..
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Se ti affidi alla visione classica della religione cristiana, l’inferno esiste ed è la destinazione finale per chi ha vissuto nel male. Un luogo di dannazione, sofferenza eterna, fuoco e lacrime.
Allo stesso tempo sempre secondo la dottrina cattolica, basta un pentimento sincero, anche all’ultimo momento, per essere perdonati. Anche uno come Hitler, almeno in teoria, avrebbe potuto salvarsi se nel suo ultimo respiro avesse provato vero rimorso.
Una possibilità difficile da accettare, vero? Eppure, per alcuni è l’essenza della misericordia divina.
Ma se mettiamo da parte il giudizio religioso e iniziamo a ragionare in modo più profondo, la domanda cambia: e se l’inferno non fosse una punizione inflitta da fuori, ma una condizione che ci creiamo da soli? Cerchiamo di ragionarci assieme..
Nell’aldilà, non abbiamo più un corpo. Quindi, dove andremmo? Non c’è un “luogo” nel senso fisico. Inferno e paradiso, da questo punto di vista, sono stati della mente.
Questo cambia tutto.
Se l’inferno non è una prigione fatta di fiamme, ma uno stato mentale, allora non arriva solo dopo la morte: può essere sperimentato già qui. E magari continua oltre.
Per capire meglio, c’è una bellissima storia Zen. Un samurai si avvicina a un monaco e gli chiede: “Cos’è l’inferno? Cos’è il paradiso?”. Il monaco lo insulta, lo provoca, lo fa infuriare. Quando il samurai è pronto a colpirlo con la spada, il monaco lo guarda e dice: “Questo è l’inferno”.
Il samurai si ferma, comprende, si inginocchia colmo di compassione. E il monaco gli sussurra: “E questo è il paradiso”.
Tutto qui. Tutto dentro.
Quando sei arrabbiato, chi sta peggio? Chi odi… o tu?
Quando provi rancore, chi si ammala dentro? Tu.
L’inferno è un circolo vizioso: più odi, più ti chiudi, più soffri. E spesso finiamo per odiare perfino l’odio stesso: odiamo il soffrire a causa dell’odio, ma è sempre odio. Risultato? Ne creiamo ancora di più. È una trappola, una spirale, una gabbia interiore.
Chi ha fatto molto male, magari spinto da traumi, follia, dolore o disumanizzazione, resta prigioniero di questa sofferenza. Non per punizione. Ma perché quella mente, quello stato emotivo, continua a esistere. Anche dopo la morte. Specie dopo visto che privi di un corpo siamo pura mente.
Molti parlano di karma come se fosse una giustizia divina che punisce. Ma karma vuol dire semplicemente azione.
Ogni azione lascia una traccia, come un’impronta. E non serve che un “dio” ti punisca. Ti ci ritrovi dentro tu stesso. Il karma non è morale: è meccanica.
Se vivi nel rancore, generi sofferenza. Dentro di te. Se vivi nella compassione, crei liberazione. Il karma non è un giudizio. È causa-effetto.
A volte ci raccontiamo che chi abbiamo ferito ci odia ancora. Ma spesso non è così. Magari ci hanno già perdonato. Magari non ci pensano più.
Il problema è che siamo noi a non perdonarci.
Hai mai ripensato a una tua malefatta e sentito il nodo in gola? Quella sensazione di vergogna, di peso, di dolore che non ti lascia. Anche dopo anni.
È quello il vero inferno. Non serve un demone che ti tortura. Ti basti tu.
Gesù, nel Padre Nostro, dice: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Questo è il punto: il perdono libera. Non solo chi lo riceve, ma anche chi lo dà.
Nella tradizione egizia, il cuore del defunto veniva pesato con una piuma. Se era più leggero, l’anima era libera. Se era più pesante, veniva divorata.
Un’immagine potente, no?
Il cuore leggero non è quello perfetto. È quello che ha lasciato andare.
Morire a cuore leggero significa aver fatto pace con la vita. Con gli altri, certo, ma soprattutto con te stesso. È il modo migliore per non restare imprigionato in uno stato mentale infernale.
Secondo alcuni insegnamenti tibetani e alle moltitudini di esperienze di premorte, al momento della morte si rivive tutta la propria vita in un istante. Ogni scena. Ogni dettaglio. Anche quelli che credevi insignificanti.
Se hai sputato per terra, diventi lo sputo. Diventi l’erba su cui hai sputato. Diventi la persona a cui hai fatto del male. E senti sulla tua pelle la sofferenza che hai causato.
Questo può creare una ferita enorme. Può diventare un inferno, se non riesci a perdonarti. Se non accetti ciò che sei stato, ciò che hai fatto.
La visione buddhista aggiunge un altro elemento chiave: l’inferno non è eterno. È uno stato da cui si può uscire, anche se non subito e anche se, mentre ci sei immerso, ti sembra non finire mai.
La reincarnazione serve anche a questo. Se hai vissuto da carnefice, potresti rinascere vittima. Non per punizione, ma per comprendere. Per evolvere. Per imparare cosa significa essere dall’altra parte.
Ogni vita è un’occasione. Anche il dolore ha senso per l’anima, se lo vedi come esperienza che ti trasforma. E così, di vita in vita, cresci come anima. Ti avvicini sempre di più a uno stato di consapevolezza e libertà.
La verità è che nessuno sa con certezza cosa ci aspetta dopo la morte: ogni caso è a se stante. Ma una cosa è chiara: molto dipende da noi. Non è un giudice esterno a decidere. Siamo noi, con la nostra coscienza, le nostre azioni, i nostri pensieri.
L’inferno è reale, ma è mentale. E possiamo uscirne. Con il perdono, con la consapevolezza, con il lavoro su di noi. Nessuno è perduto, se è disposto a guardarsi dentro.
Non è morale, non è religione. È responsabilità. E anche compassione.
anche un “caffè” o una “pizza” possono esser di aiuto
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