2. Quando l’anima entra nel corpo: ipnosi e reincarnazione
C’è un altro punto interessante. Se alla morte lasci il corpo, al momento della nascita ci entri. E anche lì, c’è un bel po’ da dire.
L’ipnosi regressiva (come quella raccontata da Michael Newton o Brian Weiss) mostra che l’anima entra nel corpo a un certo punto della gestazione, di solito quando il sistema nervoso del feto è abbastanza formato. Quasi come se aspettasse che “la macchina” fosse pronta.
La visione dei buddhisti tibetani è leggermente diversa: dicono che l’anima sceglie il corpo al momento del concepimento. Ma alla fine, non c’è una vera contraddizione. Si può scegliere prima e “entrare” dopo.
In ogni caso, il corpo che scegliamo ha un certo sistema neuronale, e con quello dobbiamo fare i conti. A volte funziona bene, a volte può rappresentare una sfida.
3. Il corpo come macchina: difficoltà dell’anima nell’incarnarsi
Immagina di entrare in una macchina mai guidata prima, con un volante diverso, pedali in posizioni strane, una sensibilità che non conosci.
Ecco, l’anima che entra in un nuovo corpo spesso si trova in questa situazione, questo almeno ci dicono dei soggetti sotto ipnosi che ricordano il momento in cui sono entrati nel corpo.
Alcuni raccontano esperienze molto fluide, altri ricordano una certa difficoltà nell’adattarsi. È come domare un cavallo selvaggio: il corpo non è un semplice contenitore, è un’interfaccia attiva, che a volte crea attrito.
4. Morire non è la fine: il sollievo dell’uscita dal corpo
Sotto ipnosi regressiva, tantissime persone mi raccontano il momento esatto in cui lasciano il corpo. E c’è un tema che si ripete: finisce il dolore, inizia una sensazione di leggerezza, pace, apertura.
Anche chi ha vissuto morti violente – accoltellamenti, incidenti, malattie terminali – racconta che nel momento in cui “esce”, non c’è più sofferenza. È come se tutto si sciogliesse in un attimo. Un click. E via.
Questo dovrebbe farci riflettere su quanto la morte sia meno traumatica di quanto immaginiamo. Il trauma, spesso, è prima: nel dolore, nella paura, nella confusione. Ma il passaggio in sé, il trapasso, può essere dolce. Persino bello e liberatorio. Specie se hai vissuto appieno la tua vita.
5. Meditazione, consapevolezza e la tentazione del dolore puro
Qui entra in gioco un tema spinoso: morire da “veri spirituali” significa evitare qualsiasi farmaco?
Molti puristi della meditazione e dell’esoterismo dicono di sì.
Alcuni monaci evitano anche gli antidolorifici, perché vogliono affrontare la morte in piena consapevolezza. E idealmente, è un bel principio. Anche condivisibile.
Ma… funziona sempre? Funziona per tutti?
Chi ha avuto esperienze forti con il dolore sa che ci sono momenti in cui non riesci a essere presente. Il dolore ti porta via, ti fa delirare. In quei casi, la consapevolezza non è più uno strumento. È un miraggio.
6. Essere centrati davvero: meglio lucidi o storditi?
Personalmente dopo un intervento chirurgico, con dolore fortissimo. Ha cercato di evitare gli antidolorifici, ma a un certo punto il dolore era tale da spegnere la mente. Nessuna presenza, nessuna centratura. Solo confusione.
E allora? È meglio essere “lucidi” ma in preda al delirio, o essere “un po’ storditi” ma presenti?
La risposta è chiara: meglio esserci, anche se con l’aiuto di un farmaco, che non esserci affatto. I farmaci, in questi casi, non sono un ostacolo spirituale. Sono un ponte. Ti aiutano ad attraversare un momento difficile senza perderti.
Gli antidolorofici oggigiorno sono calibrati meglio che in passato, in molti casi si può mantenere una certa centratura.
Certo personalmente preferisco usare la presenza mentale e la meditazione piuttosto che gli psicofarmaci, ma devo ammettere che in certi casi alla fine mi sono stati di aiuto.
7. Morire nella paura o nella presenza: cosa resta nel Bardo?
C’è un altro punto importante, spesso sottovalutato: con quale stato d’animo affrontiamo la morte?
Molti pensano che basti “lasciare il corpo” e tutto si sistema. Ma la verità è che l’energia emotiva con cui viviamo il trapasso può prolungarsi nel Bardo.
Non parliamo di punizioni o giudizi, ma di vibrazioni residue.
Se muori nella paura, quella paura può continuare a “riverberare” per un po’. Se sei pieno di rabbia o di confusione, è probabile che all’inizio del percorso post mortem ti troverai in uno stato che riflette quelle emozioni.
Per questo motivo, la cosa più utile è non cercare la perfezione, ma una direzione.
Cercare, per quanto possibile, di essere presenti, centrati, consapevoli, anche se con qualche aiuto esterno. Anche se non siamo perfetti meditatori o yogi.
Conclusione
Quindi? Come si fa a morire bene?
Non esiste una ricetta. Nessuno ha il manuale della morte perfetta. Ma una cosa è certa: il giudizio non aiuta. Né verso chi assume farmaci, né verso chi ha paura, né verso noi stessi.
Il vero lavoro spirituale non è evitare i farmaci a tutti i costi, ma usare tutto ciò che abbiamo per restare presenti.
Se per essere lucido hai bisogno di un antidolorifico, usalo. Se un antidepressivo ti evita di scivolare in un buco nero, prendilo. L’importante è esserci, il più possibile.
Quando lasciamo il corpo, tutto ciò che è materiale rimane lì. Le molecole, le sostanze, il cervello stesso. Quel che prosegue è altro. È ciò che sei, non ciò che hai preso.
4 risposte
Mia mamma negli ultimi giorni era molto agitata perché si rendeva conto di quello che le stava per accadere,i medicinali l’ hanno resa serena e le hanno dato la possibilità di salutarci con un sorriso
grazie Patrizia della tua condivisione: ogni apporto è utilissimo
Grazie Claudio, leggo sempre con interesse le tue riflessioni e spero che ti rimetta al più presto e bene
grazie mille Gabriella