La meditazione e il lasciare andare.
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Soprattutto nella antica tradizione buddhista Theravada, quella che ancora segue gli antichi dettami del Buddha, il lasciare andare è uno degli aspetti fondamentali.
Ci tengo, da subito, a sfatare un equivoco: lasciare andare non significa cacciare via.
Sono due cose completamente diverse.
L’antica scuola Theravada è detta anche Hinayana, ovvero del “piccolo veicolo”, dalle tradizione buddhiste del Mahayana (“grande veicolo”); cioè da quelle scuole, a cui appartengono per esempio il buddhismo Zen e quello Tibetano, che ha peculiarità differenti come l’essere più esoteriche oppure molto orientate all’esterno, in quanto danno molta importanza a cose come la compassione, l’apertura del cuore, l’aiutare gli altri.
Questa definizione di “piccolo veicolo”, che lo qualifica in maniera un poco riduttiva, è data dal fatto che invece il Buddhismo delle origini (quello Theravada), pone più l’accento sul guardare dentro; avendo un carattere più introspettivo e psicologico.
Un’altra definizione, un po’ più gentile, che ha dato il Dalai Lama del buddhismo Hinayana è quello di “la via della rinuncia”, del lasciare andare:
in quanto i monaci Theravada rinunciano a tante cose, sebbene la rinuncia non implichi un obbligo ma uno sposare un esercizio particolare; un esercizio che implica delle scelte salutari, uno sfrondare tutta una serie di attaccamenti che non aiutano a sviluppare la pace interiore.
Faccio un esempio.
Io sono goloso: mi piace mangiare, sebbene non di tutto, ma sono ghiotto di certe cose rispetto ad altre.
I monaci Theravada, invece, mangiano una sola volta al giorno; e non si curano tanto del gusto o cose simili: si cibano unicamente per nutrirsi, non per apprezzare il sapore del proprio pasto.
E questa è una rinuncia che loro fanno, per scelta, e che li aiuta a non sviluppare un attaccamento che è fonte di sofferenza.
Il lasciare andare è anche il lavoro principale della meditazione, vediamo come si esplica.
Cosa facciamo di fatto mentre meditiamo?
Cosa facciamo noi in meditazione, soprattutto nella meditazione maggiormente diffusa da Buddha e vivamente incoraggiata dalla tradizione Theravada?
Dobbiamo quindi parlare della Vipassana e di cosa facciamo in essa (clicca qui per saperne di più sulla vipassana).
Nella Vipassana ci alleniamo a stare con le cose così come sono; ci alleniamo a sviluppare la consapevolezza; ci alleniamo a stare con le cose così come emergono, e le accogliamo man mano che emergono.
Apriamo i nostri occhi alla realtà delle cose così come sono, senza aggiungere o levare nulla rispetto a quello che c’è.
Perché facciamo questo?
Immaginiamo che ci sia un pensiero che genera ansia in noi; io vedo questo pensiero e questa ansia, non li caccio via: perché se cercassi di cacciarli non li starei a osservare.
Ripeto questo concetto, perché spesso è fonte di equivoci: il primo passo è quello di accogliere l’esperienza; e anche se si tratta di una esperienza negativa, io ci sto e la attraverso.
Quindi c’è un pensiero, lo vedo, non lo caccio, e continuo ad esperirlo; pongo l’energia della mia consapevolezza nella sofferenza che sto vivendo in quel momento.
Il pensiero non lo caccio, ma non mi ci attacco neanche.
Non è che se io ho un pensiero poi lo inseguo: gli permetto di manifestarsi ma non indulgo in esso, e, così facendo, questo pensiero se ne va in maniera naturale; e quell’ansia, prima o poi, sparisce.
Se io l’ansia la voglio cacciare, creo altra ansia; ma se io autorizzo tutto quello che osservo a esserci, quello che ottengo è di lasciarlo andare.
se autorizzo tutto quello che osservo a esserci, quello che ottengo è di lasciarlo andare.
Lo ripeto ancora una volta con parole diverse.
In Vipassana, e nella tradizione Theravada in generale, accogliere i fenomeni e, dopo che hanno fatto la loro danza, lasciarli andare è il lavoro principale.
Il lasciare andare è il risultato spontaneo di tutto ciò.
Noi occidentali siamo abituati a voler fare, fare, e ancora fare; in Vipassana, semplicemente osserviamo.
Cerchiamo di capire e di trascendere.
Ovvero, attraversiamo l’esperienza: non ci giriamo intorno, non la saltiamo e non ci giriamo dall’altra parte.
La guardiamo con gli occhi della nostra consapevolezza e, quando la abbiamo attraversata, la abbiamo trascesa: siamo andati oltre.
Solo quando apri l’armadio, e vedi gli scheletri dentro, quello che vedi dentro non ti fa più paura; quando porti nel buio la luce della tua consapevolezza, il buio cessa di essere tale e gli scheletri nell’armadio si dissolvono; e tu non ti ci attacchi e li lasci andare.
Noi spesso ci attacchiamo alla nostra sofferenza; siamo affezionati al nostro dolore; ci piace lamentarci.
Tutto ciò può essere, invece, un qualcosa unicamente da osservare e, osservandolo, da lasciare andare.
Mi piace tantissimo il termine che utilizzano gli inglesi per “lasciare andare”, cioè to drop out: “drop ” è il rubinetto che gocciola, quindi drop out significa il lasciare che le cose sgocciolino via meglio ancora l’espressione drop it.
Ti faccio un esempio tipico che rende bene l’idea del lavoro che noi facciamo nel lasciare andare.
Immaginiamo di stringere dei carboni ardenti, dei carboni che quindi ci bruciano la mano, in un caso del genere noi ci sentiamo vivi nella nostra sofferenza, e ci attacchiamo ad essa.
Ti sembra assurdo?
Pensaci bene.
Non parlo tanto di cose come le montagne russe o i film dell’orrore, che comunque ce li andiamo a cercare perché la paura ci eccita e ci fa sentire vivi, ma soprattutto di cose come, per esempio, un amore adolescenziale (o anche uno più tardivo); la cosa ci ha causato della sofferenza e, mentre soffrivamo, ci dicevamo: “Quanto amo quella persona”; “Quanto amore c’è in me”.
Era veramente amore?
Magari era un rapporto malato, dolorosissimo, faticosissimo; però noi dicevamo “Quanto lo amo”, perché in noi c’era tanta passione e, soprattutto, tanto dolore: ma questo dolore non è amore, sono due cose molto diverse.
Che cosa succede?
Che noi ci attacchiamo a questo dolore, come nel caso della relazione; ci dava dolore, era faticosissima, però ci faceva sentire vivi e noi ci attaccavamo a tutta questa sofferenza.
Ebbene era come tenere in mano dei carboni ardenti.
Vedi l’assurdità?
Quando noi parliamo di carboni ardenti lo stringerli in mano ci sembra assurdo, ma proprio perché li vediamo come carboni ardenti; ma finché identifichi questo dolore come te stesso, come un aspetto vitale di te stesso, la cosa non ci sembra tanto strana.
Ed ecco quindi che cosa fa la consapevolezza: ti fa aprire la mano e ti fa dire: “Ehi ma, questo è dolore!”
E cosa succede quando hai in mano qualcosa che ti causa dolore; lo lanci?
Non ce n’è nemmeno bisogno: semplicemente apri la mano e…drop it, sgocciola via; e lo lasci andare. Questa è la meditazione del lasciare andare.
La Vipassana è, per essere chiari, la meditazione del “lasciare andare” ma non è la meditazione del “cacciare via”; è la meditazione della luce nelle tenebre.
Molto spesso la trasformazione, come nell’esempio del carbone ardente, avviene in modo naturale grazie alla luce della consapevolezza: non cacci via alcunché, semplicemente lasci andare qualche cosa che è dannoso per te;
questo avviene una volta che, a livello profondo, nelle tue viscere, hai realizzato che questa cosa nociva semplicemente non merita la tua attenzione, e non merita di essere alimentata ancora con il tuo dolore e la tua sofferenza.
L’unica cosa che merita è, semplicemente, di essere lasciata andare.
Ma per ottenere questo, non c’è da cacciare questa esperienza negativa, cosa che non farebbe altro che continuare ad alimentarla; bisogna attraversare questa esperienza, guardarla con gli occhi e rendersi conto di cos’è realmente e, alla fine, lasciarla andare.
Ecco perché meditazione e lasciare andare sono strettamente legate.
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Grazie Claudio.
prego grazie a te del commento 🙂