Cosa succede ai pensieri quando meditiamo

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 Quando tu riporti l’attenzione al respiro, non stai annullando i pensieri, i pensieri ci sono ancora.

La tua facoltà di pensare c’è.

La nostra parte cognitiva è limitata, non possiamo pensare a trecento cose contemporaneamente: sarebbe un susseguirsi incontrollato di pensieri (questo da un certo punto di vista ci succede, è vero, però è difficile pensare concentrati su una cosa se nel frattempo pensi anche ad altro, facendo così ti distrai).

Se leggi un libro e sei presente a quello che sta dicendo il libro, capisci, quando invece leggi una pagina, e i tuoi pensieri vanno al latte, alla spesa e ad altre cose, la devi rileggere quella pagina.

Non puoi occupare la mente con due pensieri contemporaneamente, non ce la puoi fare; cioè, non è che smetti di leggere la pagina mentre stai pensando al latte, il fatto è che non riesci a cogliere l’essenza di quella che stai leggendo.

Quindi noi non è che annulliamo il pensare, semplicemente decidiamo dove veicolare la nostra energia e, ogni volta che noi la veicoliamo nel qui e ora, i pensieri circa il passato e il domani non sono più nemici, non sono nemmeno più turbanti, nella misura in cui li osserviamo.

Ancora una volta il testimone permette di attraversare quell’esperienza senza negarla, anzi, non puoi attraversare un’esperienza se la neghi, perché andresti dall’altra parte, le volteresti le spalle all’esperienza.

Quindi non si tratta di annullare l’esperienza e non si tratta di smettere di pensare.

Quello che facciamo normalmente nella meditazione Vipassana – nella Mindfulness o nella meditazione di consapevolezza in generale – è quello di focalizzarci su un aspetto che è, sicuramente, nel qui e ora.

Quindi i pensieri non sono nemici, non vanno annullati, semplicemente quando io decido di focalizzarmi – ad esempio – sul respiro, lo spazio per i pensieri disturbanti si fa labile.

Non cessa di esistere ma, analogamente a quando io penso al latte invece che leggere il libro e il libro si fa distante, anche il pensare si fa distante, nel momento in cui io sposto deliberatamente la mia attenzione sul respiro.

Quando siamo un po’ più esercitati ad essere presenti a noi stessi, possiamo persino osservare il nostro pensare: quindi piuttosto che osservare il respiro, osserviamo gli stessi nostri pensieri.

Ma questo nostro osservare – l’aspetto del testimone – fa sì che questo proliferare dei pensieri diventi come la pagina distratta di un libro, che c’è e non c’è.

Spero di aver descritto in modo preciso l’esperienza, per fare in modo che sia ancora più riconoscibile, perché questi sono aspetti che a parlarne si rischia di finire in contraddizione, sono esperienze che uno deve recuperare nel proprio vissuto.

Quello che ho detto prima potrebbe infatti sembrare contraddittorio: ma allora c’è spazio o non c’è spazio?

A dirlo potrebbe sembrare che sto dicendo due cose in contraddizione tra loro, ma se uno le recupera nell’esperienza del vissuto, come con l’esempio della pagina che viene letta distrattamente, sa che quella pagina un po’ di presenza ce l’ha, ma è pochissima e non ci cattura, perché la nostra attenzione è sulla spesa.

Analogamente, questo esempio lo possiamo utilizzare per capire come i pensieri non sono più disturbanti nella misura in cui siamo focalizzati, persino se siamo focalizzati sugli stessi pensieri.

Se poi – specie all’inizio – può essere difficile capire come osservare i pensieri piuttosto che lasciarsi trascinare da essi (e in certi giorni lo è per tutti, perché siamo fatti di alti e bassi), il respiro ci dà comunque la garanzia di ritrovare l’adesso, ed è più facile.

Tant’è che normalmente nelle tecniche di presenza – Vipassana, Mindfulness – la prima parte non è di Vipassana, ma di focalizzazione: di Samatha.

Samatha è la parola che in pali, la lingua di Buddha, significa “concentrazione”; quindi la prima parte della visione profonda – Vipassana significa proprio “visione profonda” – è in realtà di concentrazione.

Poi una volta agganciata la presenza – la facoltà di essere osservatori – e attivato quindi il testimone, è più facile che questo testimone possa, appunto, testimoniare anche il nostro pensare, lo stesso nostro chiacchiericcio mentale.

E anche qualsiasi altro evento – anche traumatico – che stiamo vivendo nel qui e ora.

Ma senza mai estraniarsi da esso, il fatto che non sia più travolgente non significa che noi lo stiamo annullando, perché quello sarebbe voltare le spalle all’esperienza, mentre noi facciamo proprio il contrario: la osserviamo e la attraversiamo con presenza, perché ne siamo testimoni.

Altrimenti non saremmo dei testimoni: se ci voltiamo dall’altra parte non avremmo più niente da testimoniare.

Che sia chiaro questo aspetto.

Perché molti pensano: “Be’, allora io rendo innocuo il pensiero”, però facendo così, di fatto, te ne stai affrancando nella misura in cui te ne allontani deliberatamente.

Questa non è più consapevolezza: il pensiero lo stai di fatto alimentando, perché metti nell’armadio uno scheletro e quello continua a covare.

Invece noi l’armadio lo apriamo, e vediamo che poi questi scheletri non hanno tutta questa consistenza; però, per un attimo, questi scheletri possono spaventarci, non abbiamo poi tutta questa voglia di aprilo l’armadio, è fisiologico.

Però, quando riusciamo a farlo, di questi pensieri ne vediamo l’inconsistenza.

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