Capire meglio le relazioni tra Paura-Tristezza e Rabbia
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Chiariamo meglio i passaggi sulla rabbia.
La rabbia è un’emozione primaria, come pure la paura, la tristezza e la gioia (si potrebbero aggiungere anche disgusto e sorpresa, che però, a differenza delle prime quattro, non si trovano in tutto le scuole).
La rabbia cela spesso dietro una paura.
Mi è anche capitato – nei gruppi di autoaiuto che ho fatto per anni – di vedere come dopo che una persona si è sfogata, e ha tirato fuori tutta la sua rabbia, venisse fuori una profonda tristezza e una grande amarezza (l’amarezza magari di non essere riconosciuti: non c’è nulla di peggio per un essere umano del non essere riconosciuti, ci si sente davvero con le spalle al muro).
Ecco quindi come rabbia e paura sono strettamente legate: la rabbia è una forma di paura, che capita quando siamo con le spalle al muro.
Vediamo meglio la paura.
La paura è: arriva una tigre, e io posso scappare
È perciò un’energia propedeutica alla fuga.
Anche a livello fisico: entrano in gioco dei neurotrasmettitori, che attivano l’affluenza del sangue alle gambe e al resto delle zone periferiche, quindi i muscoli si attivano e io comincio a correre.
Con la rabbia succedono delle cose molto simili, ma non è un’energia propedeutica alla fuga: ma all’aggressione.
E questo quando succede?
Quando “la belva” si sta avvicinando a me, ma io non ho possibilità di fuggire; e non potendo fuggire, non ho bisogno di attivare l’energia propedeutica alla fuga, l’unica cosa che posso fare è aggredire la causa del mio essere con le spalle al muro.
In psicologia si è visto come il nostro vero bisogno primario – fin da bambini – non è tanto il nutrimento – che è comunque uno dei nostri bisogni primari – ma il senso di protezione, che è il più importante di tutti.
Essere visti – dai propri genitori, come nel caso del bambino – ci dà un senso di protezione; essere ignorati, ci fa sentire abbandonati (abbandonati a noi stessi: persi).
quindi dietro a tutto c’è una forma di tristezza
Questa profonda tristezza del non essere visti – e che quindi è una paura di non essere visti – si trasforma poi in rabbia.
Il non essere considerati bene – se, per esempio, si prendono gioco di noi e ci sentiamo con le spalle al muro – è un motivo di aggressività.
Poi c’è tutto un discorso – a cui faccio solo cenno, perché ci porterebbe lontano – relativo all’assertività.
Nelle nostre relazioni, dovremmo reclamare i nostri confini – la necessità ad avere i nostri spazi – con decisione, ma anche con chiarezza, e senza essere noi ad invadere quelli degli altri.
l’assertività: la chiave per le relazioni funzionali
Io rispetto il tuo confine, tu rispetti il mio confine: questa è l’assertività.
Ci sono due altri atteggiamenti (che si incastrano bene tra loro: uno è propedeutico all’altro), che fanno sì che chi è aggressivo si rapporti con chi è passivo aggressivo, e chi è passivo aggressivo con chi è aggressivo.
E quindi chi si fa pecora, il lupo se lo mangia: la pecora è concausa dell’aggressività del lupo, e il lupo è concausa della passività della pecora.
In questo contesto, il passivo è spesso subdolo.
Il passivo si fa andare bene le cose per non essere assertivo (per non affrontare la situazione, e non mettere un confine dove andava messo), e quindi manda giù il rospo, manda giù il rospo e manda giù il rospo; chi è aggressivo sconfina, sconfina e sconfina (e non si rende conto che sta sconfinando, perché l’altro non gli dà segnali), e continua ad allargarsi, finché un bel giorno, chi è stato passivo, aggredisce (per questo si dice “passivo aggressivo”).
E da quel momento non ce n’è più.
Mentre con l’aggressivo puoi trattare, gli puoi dire: “Basta, hai sconfinato” (se uno è aggressivo tenderà sempre a sconfinare ma, se uno è abbastanza assertivo, dopo un po’ non ci prova più, capisce che c’è un limite), col passivo invece non c’è trattativa.
È più subdolo: si fa fare, si fa fare e si fa fare, ma quando deve comunicare che basta, è già troppo tardi (basta: non c’è più trattativa; non c’è mai stata).
Queste diverse modalità – chi più l’una, chi più l’altra – tutti noi le utilizziamo tutte e tre, ma sarebbe utile il mantenersi il più possibile nell’assertività.
Spero di aver dato degli elementi di riflessione circa la rabbia, circa la possibilità di accoglierla come un’energia che può essere veicolata in modo costruttivo.
La rabbia è come un arco teso munito di freccia.
Tendere un arco richiede tanta energia, si crea tantissima tensione; e la cosa più facile da fare è lasciare andare la freccia, piuttosto che mantenere l’arco teso.
Perciò io ho bisogno di veicolare in qualche modo la tensione, perché non posso mantenere uno sforzo del genere troppo a lungo; devo trovargli uno sfogo a tutta questa energia.
Ma se io lascio andare la freccia, e uccido qualcuno, cavolo, faccio gravi danni; va sì veicolata questa energia, ma nel modo opportuno, con consapevolezza.
Allo stesso tempo è una energia utile.
Se io devo dire di no a qualcuno, cerco di calibrarla (ovviamente non uso tutta la tensione dell’arco e scaglio la freccia subito, arrabbiatissimo contro chi sta invadendo il mio territorio); lo minaccio, e gli dico, deciso: “Oh! Basta!”.
Perché se gli dico solo: “Mmm… ehm… b-basta…”, non sono credibile, sono ancora passivo; se invece uso questa energia, gli faccio: “Basta, eh? Visto che arma che c’ho?”, così sono molto più convincente.
E quindi un po’ di quella energia mi può essere utile, la posso usare.
E quando la uso, posso allentare l’arco, non ho più motivo di tenerlo teso se sono stato abbastanza convincente nel dire all’aggressivo di farsi da parte.
E poi la posso dosare in un certo modo: posso dare degli stop sempre più marcati (e poi, certo, se non si riesce, cercare di evitare di fare del male è sempre da auspicare).
Quindi è sempre la consapevolezza che ci permette di non fare danni, il mantenere la presenza anche quando siamo arrabbiati.
Ma, se ci alleniamo a essere presenti a noi stessi sempre, ci sarà sempre più facile allenarci a stare con la nostra rabbia; non dico nel momento più esplosivo, ma sempre di più potremo essere presenti con dosi sempre più massicce di rabbia, e non agirla.
Fino a trascenderla, oppure a permetterle di apparire un attimo e a riconoscerla subito.
Io ne avevo tanta di rabbia, ora molto meno, ma ho comunque una certa matrice.
Io normalmente sono molto pacifico; ma tutte le persone pacifiche, quando si arrabbiano si arrabbiano.
Riuscire quindi ad autorizzare in qualche modo la rabbia – a non arrabbiarsi per essere arrabbiati, alimentando così la rabbia stessa – è un primo passo verso una sempre maggiore serenità, e una sempre più facile trasmutazione di questa rabbia (che più che trasmutazione, è più una trascendenza: un andare oltre).