Etichettare in meditazione Mindfulness
Cominciamo con la più semplice delle due domande, quella di Paolo, che dice: “Cosa significa etichettare in meditazione? Si fa spesso in Mindfulness, ma è giusto?”
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Sì, etichettare si fa spesso in Mindfulness, si fa anche in Vipassana (di fatto, la Mindfulness non è altro che una semplificazione della Vipassana), ed etichettare è giusto, non è “sbagliato” in senso assoluto.
Ma il punto è questo: quando noi etichettiamo, facciamo un lavoro cognitivo.
Chi cosa stiamo facendo, quando etichettiamo?
Prendiamo una idea preconcetta, l’idea per esempio del cane che abbaia (che è un’idea che già esiste dentro di noi: quindi è un’idea metafisica appartenente al mondo delle idee) e noi la utilizziamo per dare un nome all’esperienza che stiamo vivendo, che è quella di ascoltare l’abbaiare di un cane.
Quindi c’è l’abbaio di un cane, e noi etichettiamo: “abbaio di un cane”.
Questo noi lo facciamo comunemente, e va benissimo, è un modo per stare nel qui e ora, un modo per orientare la nostra parte cognitiva: la nostra tendenza ad avere pensieri verso quello che stiamo vivendo, che è in questo caso l’ascoltare un cane che abbaia.
E tutto questo va bene.
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Dove nasce il problema?
Nasce se, quell’etichetta che io ho messo all’esperienza, non è un’etichetta rimuovibile.
Io ho in mente quelle belle etichette che usava tanto mia mamma per attaccarle sulle cartelline, e che quando volevi staccarle era impossibile: dovevi per forza metterci un’altra etichetta sopra, se volevi cambiare la funzione di quella cartellina.
Ma invece ci sono anche i post-it.
Tu sai già nel momento in cui lo compili un post-it, e lo appoggi su una cosa, che è temporaneo: quindi non cristallizza l’esperienza, semplicemente cerca di darle un nome.
Questo modo, quello di mettere i post-it, va piuttosto bene, e mi può aiutare a integrare un aspetto percettivo con un uno cognitivo.
E quindi ad avere una consapevolezza più vasta dell’esperienza, perché le sto dando un nome.
Spesso in psicologia si dice: “Dai un nome alle tue emozioni”, e quindi l’emozione non te la vivi soltanto, la elabori: te la vivi e la elabori, contemplandola al punto tale da darle un nome.
Però, attenzione, cosa succede quando noi tendiamo a dare un nome all’esperienza?
Tendiamo a usare etichette più inamovibili, smettendo di contemplarla e di volerla conoscere.
Tendiamo insomma ad archiviarla.
Le mettiamo un’etichetta e la archiviamo nel nostro baglio di conoscenze precostituite: riconosco, come nell’esempio, l’abbaio del cane (che è quindi una conoscenza astratta e pregressa), la riconduco a quello che sto vivendo adesso e la etichetto; mi sento tranquillizzato, perché la conosco già e non è qualcosa di cui allarmarmi, la archivio, e smetto di contemplare l’abbaio del cane.
E a quel punto posso distrarmi, passare ad altro… però quel cane continua ad abbaiare: e io invece posso continuare a vivermi l’esperienza.
E, dietro l’abbaiare del cane, c’è un mondo, non finisce lì: c’è tutto un processo che mi ha spinto a usare quell’etichetta.
Questo processo – e lo abbiamo già in parte visto – mi fa attingere a una idea preconcetta del passato.
Quindi io sto forzando il presente, e lo sto riconducendo nelle briglie strette di un disegno precostituito, per ridurlo all’aspettativa che io ho dell’abbaiare del cane.
Facendo così, io sto viziando il presente, per incastonarlo in qualcosa di già conosciuto del passato.
È un rischio, non è detto che succeda, etichettare è un qualcosa che va bene, ma facendo così rischio di incastrare il presente nel passato.
Impoverendo il presente a favore di un’idea preconcetta.
Ripeto, è un rischio, non è detto che io, necessariamente, cada in questo errore.
Non è sbagliato, in sé, l’etichettare, il conoscere e il riconoscere; e va benissimo che, in Mindfulness e in Vipassana, si faccia.
Quello che vorrei offrire come visione è il non rimanere ancorati a quella semplice etichetta, perché, dietro a questo processo, c’è un mondo.
Tra cui quello che abbiamo appena visto.
Abbiamo già visto che abbiamo fatto qualcosa, quando noi, per esempio, etichettiamo l’abbaiare di un cane come un rumore (e quindi come un qualcosa di fastidioso, altrimenti non lo chiameremmo rumore).
Ma “un rumore” non è qualcosa di oggettivo, ma bensì di soggettivo.
Tu potresti dirmi: “Ma un cane che abbaia è fastidioso” (oppure un motorino), ma non è per forza così: se tu hai un cane, magari per lui provi dell’affetto, non provi fastidio, e quel suono ti aggancia diversamente (e un motorino fa rumore, magari è pure smarmittato, ma per qualcuno è un bel suono).
La percezione arriva semplicemente al livello del padiglione auricolare e, di per sé, la percezione è neutra, è solo un suono.
Quando tu parli di rumore, ti sei già perso parte del processo: ti sei perso quando il fenomeno, la materia “suono”, è arrivato vibrando dentro l’orecchio, dentro l’orecchio poi sono successe delle cose, e tu ci hai appiccicato l’etichetta “rumore”, a cui poi tu hai appiccicato una ulteriore etichetta “abbaio di un cane”.
Cosa voglio dire con tutto questo?
Di non dare per scontato tutto questo processo: perché tutto questo processo, in Vipassana, può essere osservato.
Quindi non mi limito a dire: “Ho riconosciuto l’abbaio del cane e vado oltre”, perché, ripeto: c’è un mondo.
Stai con quello che c’è.
Per cui, magari, non andare a inseguire tutto il processo, e tutto il discorso che ho fatto: perché anche questo discorso, alla fine, è un concetto.
Quindi se tu, in meditazione, stai lì è dici: “Cosa aveva detto Claudio? C’era l’abbaiare del cane… l’orecchio… e poi com’era?”, facendo così stai attingendo di nuovo al passato.
Quello che voglio dire è di non smettere di investigare, e di non credere che quell’etichetta sia un qualcosa che rimane così per sempre.
Non cristallizzare quell’esperienza.
Lo stesso fastidio, lo stesso concetto di rumore, potrebbe mutare nel tempo; e poi, comunque, è utile riconoscere che non è un qualcosa di oggettivo l’abbaiare di un cane: qualcuno potrebbe percepirlo come piacevole, o magari, qualcun altro, potrebbe vederci dietro lo strombettare di un clacson, ad esempio.
Quindi tutte queste etichette, le hai messe tu: è stata la tua mente a farlo (dal punto di vista della cosmologia buddista, come vedremo in seguito, sono aspetti diversi e sono tutti nella tua mente).
Perciò non c’è, oggettivamente, l’abbaio di un cane: c’è un fenomeno che viene percepito soggettivamente; magari da più persone, e ciascuna percepisce quel fenomeno in maniera un pochino diversa.
Perché avviene questo?
Proprio perché questa elaborazione, tutti questi processi, avvengono all’interno della nostra mente.
Il mio invito è quello di non smettere di investigare; non basta dire: “C’è un cane che abbaia”.
Come ti fa stare quell’abbaio di un cane?
Ti piace?
Non ti piace?
Ti è indifferente?
Come sta il tuo corpo in corrispondenza di quel fastidio?
Cosa succede dentro di te: vorresti andare lì?
Che cosa ti dici mentalmente?
Quindi non facciamo come se stessimo archiviando tante fotografie.
Va bene fare delle fotografie: io faccio una fotografia del momento presente.
Ma questa fotografia non è altro che una serie di infiniti fotogrammi di un processo, che è fluido: ora abbaia; ora non abbaia più; ora mi dà fastidio; e ora no; quello che mi sembrava un abbaio, ora che lo sento bene, potrebbe essere una macchina che strombetta, e che assomiglia tanto a un cane.
Tieniti aperto.
Solo così, continuando a esplorare, conosci veramente.
Quindi va bene etichettare?
Certo che va bene.
È inevitabile, in un mondo duale come quello in cui siamo immersi, che è fatto anche di questo livello di conoscenza.
In Mindfulness ti esortano anche a riconoscere ciascun fenomeno (quindi: abbaio di un cane – suono – fastidio), e va tutto bene, l’importante è che tu non credi che quel rumore sia veramente un rumore; e che tu sappia che, quello che stai etichettando come “rumore”, è il tuo modo di percepire quel fenomeno, ma che il fenomeno, di per sé, è neutro.
Questo è il motivo per cui io, personalmente, non insisto troppo sull’etichettare, ma invito a mettere dei post-it: etichettare rischia di diventare un giudizio, che si appoggia a dei pre-giudizi, e quindi al passato.
Penso quindi di aver risposto alla domanda di Paolo.
È giusto?
Sì, certo, è giusto etichettare.
E, allo stesso tempo, può essere limitante, se mi fermo a quello e non continuo a esplorare.
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