Vipassana: quando si accavallano cose da osservare
Luca mi chiede questo: “Durante la meditazione, mentre sei in Vipassana – e ti dedichi all’osservazione di tutto ciò che accade momento per momento, e hai un minimo di esperienza nel riconoscere sensazioni, fenomeni, stati mentali, oggetti ecc. ecc. – può capitare che allo stesso momento riconosci più cose che si sormontano.
Esempio: diventi consapevole allo stesso momento di un suono e di un prurito, e cerchi di portare avanti l’osservazione di entrambi; non ci riesci, e improvvisamente potresti notare irrequietezza, dovuta al fatto di non riuscire a seguire entrambi.
La cosa si complica quando le cose diventano più di due.
Hai per caso dei suggerimenti per queste situazioni?
Quello che faccio io, di solito, è prendere atto del fatto che sono coinvolto da più oggetti allo stesso tempo, tornare qualche secondo al respiro come unico oggetto per assestarmi, e poi ricomincio a indagare.”
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il “qui ed ora decide”
Quello che fai, quando ti senti perso e non sai più bene cosa seguire, è ritornare al respiro: ed è ottimo.
E perché?
Perché quello che stai provando è confusione: non sai bene cosa fare.
E quando non sai bene cosa fare, tornare al respiro è sempre un’ottima cosa. (Samatha)
Tuttavia, osserva anche questa confusione, osserva anche questa frustrazione: tutto questo è osservabile. (vipassana)
Ed è meraviglio da osservare.
Tu vorresti un metodo.
Ma un metodo non c’è: il qui e ora è il metodo.
Quello che emerge nel qui e ora è la cosa migliore che tu puoi osservare.
Detto così siamo tutti d’accordo, lo sappiamo già, è una cosa che probabilmente non è una novità.
E quindi, come osservare?
Come fare quando allora c’è più una cosa, e tu tendi a volerne seguire una o l’altra?
Calmati.
Osserva cosa, in quel momento, emerge di più.
Il dubbio, il desiderio di seguire una delle due: sono alcune delle cose che potrebbero emergere.
Per capire meglio questo processo, mi avvalgo di uno strumento psicologico appartenente alla corrente della psicologia e della filosofia della Gestalt.
la Gestalt
Anzitutto, che cos’è una “gestalt”?
Gestalt è una parola tedesca, molto usata, appunto, in ambito psicologico.
Come per esempio dalla psicoterapia della Gestalt di Fritz Perls, che a sua volta si era appoggiato all’approccio psicologico della Gestalt.
Della parola “gestalt” non esiste un esatto corrispettivo in italiano, e indica una figura intera che ha senso solo nella sua interezza; quindi una Gestalt non può essere parziale, deve per forza essere completa.
E la psicologia della Gestalt, e anche la psicoterapia della Gestalt, hanno constatato come la nostra mente tende a chiudere, a completare l’esperienza.
Ad esempio: se io ti pongo davanti una tazza, la cui visione è però parzialmente ostruita da un termos posto davanti a essa, tu mi puoi dire che io ho in mano un termos e una tazza; ma la tazza è coperta del termos, che sia una tazza non lo puoi dire con certezza, potrebbe anche essere una mezza tazza perché è spezzata.
Però la tua mente la chiude, e la vede come intera.
La Gestalt è molto usata in ambito pubblicitario.
Per esempio quando vedi una puntata di una serie tv: la puntata finisce – quindi la storia di quella puntata si è conclusa – e poi cominci a vedere l’anteprima di quello che succederà nella puntata dopo.
La puntata ha chiuso una gestalt, e ti ha aperto una nuova gestalt: tu non vedi l’ora di vedere cosa succederà nella puntata dopo.
Oppure possono anticiparti cosa si vedrà dopo la pubblicità, o la stessa pubblicità può funzionare in questo modo.
Tutto è studiato in modo tale che la nostra mente sia appesa, e abbia quindi un’esperienza – una gestalt – che tu non vedi l’ora di chiudere.
Noi quindi siamo pieni di gestalt aperte, pieni di cose che ciucciano la nostra energia e che richiamano la nostra attenzione.
La lingua batte dove il dente duole.
Per spiegare meglio il concetto di quanto sia importante stare nel qui e ora, e di come la lingua batta sempre dove il dente duole, possiamo dire che dal vuoto fertile – e dal silenzio – emerge un qualcosa: e questo qualcosa non è una cosa a caso, è la prima cosa che nel qui e ora chiama la nostra attenzione.
E se emerge – dall’inconscio, dal fisico o da qualunque altra parte – c’è un motivo.
Se emerge un fastidio, c’è un motivo.
Oppure un suono: siamo pieni di suoni intorno a noi, perché è proprio quel suono lì a richiamare la nostra attenzione, a metterci in agitazione e spingerci a smettere di meditare, e un altro no?
Prima di cedere, e smettere di meditare, perché un bambino piange, fermarti un attimo e chiediti se è proprio necessario che tu smetta.
Perché ti acchiappa tanto un bambino e la sirena di una macchina no?
Poi è chiaro che, se sei solo in casa, il bambino si è fatto male e nessuno gli sta dando retta, è normale che smetti di meditare.
Però magari è il bambino del vicino che ti sta acchiappando tanto, come se fosse tuo; sarebbe interessante da notare cosa ti dice questo fatto.
Quindi, ogni volta che qualche fenomeno bussa alla tua porta, succede tutta una serie di cose a livello di sensazioni o di percezioni.
le sensazioni e le percezioni
Quando parliamo di sensazioni, da un punto di vista buddista stiamo parlando anche di reazioni rispetto alle sensazioni.
Le sensazioni sarebbero: mi piace, non mi piace, mi è indifferente.
E poi ci sono le reazioni: mi piace, e allora non vedo l’ora di andare lì; non mi piace, e devo reagire meccanicamente cercando di respingerlo; mi è indifferente, quindi metto la testa sotto la sabbia per non vederlo, mi addormento, mi annoia.
Sono tutte reazioni che scaturiscono dalle sensazioni, e tutto ciò è riscontrabile a vari livelli.
Quindi va bene che qualcosa, in un certo momento, bussi per richiamare la tua attenzione.
Però non è che lo devi inseguire.
In un certo momento bussa il dente che mi fa male in bocca, ok, ne prendo atto; poi ho un prurito; poi emerge un suono…
E io, ogni volta, ne prendo atto.
Prendo atto e lascio andare.
Non caccio via: prendo atto.
Quindi, c’è un pensiero, ne prendo atto e lo osservo; quando io lo osservo non sono più nel pensiero: sono l’osservatore che osserva il pensiero.
Questo pensiero tenderà a farsi piccolo e ad andarsene.
Non lo caccio via: lo lascio andare.
Non lo vado a inseguire.
Quindi, quando tu hai più di una esperienza, non devi inseguire necessariamente qualcosa.
Indaghi.
Magari c’è un suono, questo suono è associato a un pensiero, che si è associato a un’immagine e così via.
Sento un “Wuhuù”: le mie orecchie è questo che sentono, wuhuù, ma dentro la mia testa è già apparsa l’immagine di un cane, e già c’è l’etichetta “abbaio”.
Ma di per sé c’è solo questo “wuhuù”.
Nota anche tutto questo nostro etichettare, e cerca di stare quanto più possibile nella purezza dell’esperienza.
È un suono.
È fastidioso?
Cosa succede se è fastidioso?
Osservare l’esperienza
Personalmente io spesso faccio questo, quando ho più di una esperienza che richiama la mia attenzione.
Osservo quella predominante e mi domando: “Come mi fa stare a livello emotivo?”; “Come mi fa stare a livello fisico?”
E allora posso notare che, se c’è brama, i muscoli tendono a irrigidirsi quasi volessero andare lì.
Se c’è avversione, i muscoli si irrigidiscono sempre, ma in modo diverso, quasi volessero aggredire quell’esperienza.
Succedono tutta una serie di cose: e io indago.
Ma lascia che l’indagine sia caleidoscopica; cioè lascia fluire il fenomeno, che non è mai fermo.
Quando è fermo, vuol dire che c’è un momento di silenzio tra un pensiero e l’altro (e c’è un momento di beatitudine, spesso).
Altrimenti c’è sempre un susseguirsi di cose che richiamano la nostra attenzione.
E io rimango a osservarle.
Rimango come al centro di una ruota, e tutto gira intorno a me, tutto questo susseguirsi di pensieri, di sensazioni: tutto gira, gira, gira ma io sto al centro; e sono fermo.
Idealmente.
Poi magari ogni tanto mi distraggo, mi faccio catturare da questo vortice di cose, e poi mi ricentro; riporto la mia attenzione al centro, e di nuovo osservo questo danzare delle cose.
Ma se tu vuoi inseguire una cosa sola, un suono rispetto a una sensazione fisica, e vuoi per forza scegliere tra uno dei due, già vuoi cristallizzare un’esperienza fissandoti su una.
Ma la devi lasciar fluire, non c’è bisogno di trattenerla.
Poi, certo, se ti chiedi cosa stai facendo, se ti senti confuso, va benissimo tornare al respiro; e quindi quello che stai facendo va benissimo.
Tuttavia vorrei aprirti a questa nuova possibilità: di avere fiducia che quello che sta emergendo alla tua attenzione è quello che, in quel momento, ha bisogno di essere osservato.
Poi basta l’osservazione perché questo qualcosa si trasformi e diventi già qualcos’altro, e quindi a quel punto stai col qualcos’altro, perché a quel punto quell’esperienza è già andata via.
Bisogna stare attenti quando noi portiamo alla consapevolezza delle cose, e usiamo anche le etichette, a non fissare queste etichette, a non cristallizzare l’esperienza.
Tutto viene e va
Noi osserviamo tutto, ma lasciamo andare tutto: non tratteniamo.
I pensieri non hanno bisogno di essere trattenuti e non hanno bisogno di essere respinti, basta osservarli.
Ma visto che tutto scorre, tutto è impermanente, viene e va, e ha un inizio, uno sviluppo e una fine, non abbiamo bisogno di inseguire qualcosa; perché basta rimanere nella posizione dell’osservatore per notare come, anche tutto questo fluire di pensieri e tutti questi dubbi, a un certo punto si aprono; e ci ritroviamo a un certo punto con una mente aperta.
Non sempre succede, non in tutte le meditazioni è così.
O meglio, non in tutte le meditazioni ce ne accorgiamo di quanto la mente si apre.
Ma la mente si apre.
Anche nella meditazione più distratta che possiamo avere ci sono momenti di apertura mentale, ma tendiamo magari a distrarci, a fissarci sugli altri, a notare il bicchiere mezzo vuoto.
Ma va bene lo stesso.
Già solo il fatto di fermarci un attimo a meditare, con l’intenzione di osservare, sprona l’osservatore; l’osservatore si attiva comunque.
Poi, il mio invito è quello di continuare a mantenere l’indagine, e di continuare a chiederti: “Cosa sta succedendo adesso?”, “Cos’è questo?”; senza dover necessariamente usare delle etichette, se arrivano, bene, altrimenti bene lo stesso.
E se le etichette arrivano, non le fissare, non usare quelle etichette tipo quelle che si mettono nelle cartellette, che le attacchi e rimangono sempre belle lì.
Usa i post-it, perché l’esperienza fluisce.
E quindi lasciala fluire, altrimenti tenderai a cristallizzarla.
Con questo spero di aver risposto a Luca e a tutti coloro tendono a non sapere bene cosa fare quando si sovrappongono più cose da osservare.